Il passaggio dalle ceramiche alla cucina, il luogo che più degli altri le custodisce, è stato intuitivo e ovvio. Ciò che non immaginavo era di incontrare cinque donne fantastiche e il loro pensiero del tutto innovativo.

Partiamo dal principio.

Catherine Beecher e Harriet Beecher Stowe, Lillian Moller Gilbreth, Christine Frederick e Margarete Schütte-Lihotsky: due appassionate abolizioniste, una convinta sostenitrice dell’eugenetica, che auspicava il dominio razziale dei protestanti anglosassoni bianchi per mantenere l’America pura, una cultrice delle dottrine di Frederick Winslow Taylor sull’organizzazione scientifica del lavoro e un’architetta austriaca acerrima nemica del Nazismo.

Cosa lega queste donne, che epoche storiche, convinzioni politiche, provenienza geografica e culturale hanno tenuto così lontane da rendere difficile pensarle eroine di una stessa rivoluzione?

La cucina. E non intesa come arte culinaria, ma come luogo razionalmente organizzato per ottimizzare i tempi e fare del tempo residuo che ne derivava il presupposto per la conquista di una maggiore libertà della donna.

 

Era il 1869 quando Catherine Beecher e sua sorella Harriet Beecher Stowe pubblicarono The American Woman’s Home, il primo libro a suggerire la struttura di una cucina con superfici di lavoro continue, armadi a muro, aree separate per la preparazione e la pulizia del cibo, finestre sopra il lavello e i fuochi per la ventilazione. Ispirata dalle cambuse dei battelli a vapore del Mississippi, era concepita in modo tale che “con uno o due passi” si potesse “raggiungere agilmente ciò che serve al momento”. 

Oltre quaran’anni più tardi, Christine Frederick trasformò parte della sua casa nello stato di New York nella Applecroft Home Experiment Station, una vero e proprio laboratorio dove sperimentava nuovi elettrodomestici, metodi innovativi per la preparazione dei cibi e dove nacquero i suoi articoli per The New Houskeeping, la rubrica fissa che teneva sul Ladies’ Home Journal in cui spiegava i principi del taylorismo applicato alla gestione del lavoro domestico.

E mentre l’ingegnere e psicologa Lillian Moller Gilbreth – pioniera dell’ergonomia, madre di docici figli che riteneva quello della casalinga lavoro non retribuito – distribuiva secondo l’ancora utilizzato schema a L fuochi, lavello, piano di lavoro, dispensa e frigorifero per avere tutto a portata di mano senza dover muovere un solo passo, la raccolta di articoli della Frederick veniva tradotta in tedesco nel 1921 con il titolo Die rationelle Haushaltführung e finiva nelle mani di un’altra grande pioniera: Margarete Lihotsky, la prima donna architetto austriaca.

Siamo nel 1926 e l’architetto tedesco Ernst May chiama Margarete a Francoforte e le affida un progetto che è una sfida epocale l’edilizia urbana popolare: progettare spazi abitativi estremamente funzionali ma ridotti e, soprattutto, a basso costo per la “Nuova Francoforte”.

 

È da qui che nasce la Frankfurter Kuche, la prima cucina componibile in cui si ridefiniscono lo spazio di lavoro, la distribuzione degli elementi,  la funzionalità di ogni singolo elemento. Una cucina di straordinaria modernità, bella nella scelta dei colori e negli accostamenti dei materiali; una cucina che, per dirlo con le parole di chi l’aveva progettata, poteva “liberare le donne della classe operaia” e permettere loro di  “tornare nelle fabbriche e contribuire alla rinascita del paese”.

Non è dunque azzardato parlare di un’opera collettiva, nata da donne che – più o meno consapevolmente – hanno fatto della loro idea di cucina ben progettata, non solo un’ innovazione tecnologica e culturale, ma un vero e proprio atto politico. 

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Se siete a New York  potete visitare una Frankfurter Kuche al MoMa, ma se come me, non avete questa fortuna vi lascio un link in cui ammirarla nel dettaglio:  https://youtu.be/6T3EM872x-A

A Vienna è invece possibile visitare il centro a lei dedicato, che altro non è che un museo abitativo e sua ultima residenza https://www.schuette-lihotzky.at/de/